La sicurezza europea a 50 anni dopo Helsinki
- assamiciferraris
- 17 nov 2024
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Lo spirito di Helsinki nelle testimonianze della diplomazia italiana
Questo libro fu pubblicato per la prima volta in italiano[1], a cura dell'ambasciatore Luigi Vittorio Ferraris, nel 1977, mentre si iniziava la discussione sui cosiddetti «seguiti» della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, conclusasi con la firma dell'Atto finale di Helsinki, il 1° agosto 1975, all'apice di una stagione di distensione tra due blocchi che si erano confrontati aspramente in Europa a partire dal dopoguerra. Il mondo allora appariva ancora seguire una logica bipolare, benché si fossero già aperte le strade del suo superamento: la Cina si era già staccata dall'Unione Sovietica e si avviava, con la progressiva e riuscita adesione all'economia di mercato, al suo ritorno di grande potenza, mentre si consolidava il movimento dei Non allineati, frutto della decolonizzazione quasi ultimata e della repentina irruzione di culture e civiltà diverse come nuovi protagonisti della scena internazionale.
Nondimeno, il negoziato sulla sicurezza e cooperazione sviluppatosi in Europa si considerò cruciale anche per gli sviluppi della cosiddetta guerra fredda su scala mondiale. Inedita rifondazione del diritto pubblico europeo, come ha scritto Roberto Gaja[2], l'Atto finale di Helsinki registrò lo statu quo politico-territoriale determinatosi alla fine della seconda guerra mondiale, ma non lo considerò immutabile, introducendo una visione evolutiva dei rapporti tra gli Stati europei e, prima di tutto, riconoscendo l'esistenza di una sola Europa, dall'Atlantico agli Urali, nella sua valenza storica e culturale. L'Europa di Helsinki comprendeva perciò non solo i Paesi militanti nei rispettivi blocchi politici e militari, ma anche i Paesi neutrali e non allineati, e perfino la Santa Sede, che partecipò a pieno titolo per la prima volta in un'assise europea dopo il Congresso di Vienna del 1815.
A parte la riottosa Albania, che rifiutò la partecipazione, ma della cui posizione si tenne segretamente conto nella formulazione dei principi di Helsinki, all'assemblea generale del continente convennero 35 Stati, riuniti sulla base del principio della pari dignità di tutti i partecipanti, grandi o piccole potenze, tutti con lo stesso diritto di esprimere la propria posizione e di pretendere che di essa si tenesse conto in ogni principio, disposizione o frase, contenuti nel documento finale da sottoscrivere. Fu un modo, anche questo, per rompere o almeno indebolire la logica dei blocchi: i negoziatori lavorarono con in mente la peculiare situazione del proprio Paese e il loro interesse nazionale e con risultati impensabili con una diversa impostazione. Basti citare, ad esempio, l'azione di Paesi con regime socialista, come la Romania o la Jugoslavia, la prima membro del Patto di Varsavia, per impedire che nelle pieghe delle statuizioni del documento finale si potesse leggere una qualche forma di acquiescenza verso la dottrina Breznev, la dottrina della «sovranità limitata» che il leader comunista aveva affermato, dopo l'invasione della Cecoslovacchia nel 1968, per legittimare l'ingerenza dell'Unione Sovietica negli affari interni degli altri Paesi socialisti a difesa dei loro regimi, finanche con un intervento militare.
Si può comprendere bene come, proprio per la necessità dell'unanime consenso, il negoziato produsse un Atto finale frutto di faticosi compromessi e limature, più manifesto d'intenzioni che obbligo cogente tutelato dalle forme solenni di un trattato di diritto internazionale, di cui l'Atto non ebbe mai la veste. Come accade per le disposizioni contenute nelle Costituzioni democratiche di uno Stato, spesso frutto del compromesso tra le varie forze politiche che le creano, così l'Atto finale di Helsinki conteneva principi non di semplice e univoca interpretazione, ma rappresentava pur sempre una carta condivisa da tutti e sulla quale ci si poteva incontrare anche semplicemente per discutere della sua interpretazione. Si puntò a superare, in tal modo, l'idea della coesistenza, sia pur pacifica, per giungere a forme nuove di convivenza, introducendo un nuovo metodo di gestione dei rapporti tra gli Stati europei con sistemi politici ed economici diversi, che non solo coesistessero, ma dialogassero e cooperassero su impegni che avevano condiviso e sottoscritto.
Attraverso le sue statuizioni e il meccanismo di metodica consultazione e di verifica a livello paneuropeo che stabiliva, Helsinki inaugurava un metodo di trasformazione dello statu quo non certo rivoluzionario, ma capace di favorire i mutamenti con gradualità e senza scosse, nella certezza che nulla vi è di eterno e che la storia avrebbe cambiato prima o poi l'Europa. Per i Paesi occidentali, e per i loro negoziatori, motivati dall'incrollabile fede nei valori della libertà e della democrazia, non vi era dubbio verso quale trasformazione i popoli europei, presto o tardi, si sarebbero incamminati.
L'avvio del negoziato nel 1972 era Stato caratterizzato da incertezze e dubbi da parte occidentale nel rispondere alla richiesta che veniva dall'Unione Sovietica di stabilizzare il quadro politico-territoriale affermatosi dopo la seconda guerra mondiale, con la divisione della Germania e la divisione dell'Europa, con la legittimazione e, dunque, l'implicita accettazione da parte dell'Occidente del controllo sovietico sui Paesi membri del Patto di Varsavia. I governi dell'Europa occidentale vi scorgevano, inoltre, il tentativo sovietico di indebolire la NATO, dividendo gli europei dagli Stati Uniti, e di aprire crepe anche nella Comunità europea, facendo emergere i contrastanti interessi nazionali degli Stati membri, ormai divenuti nove con l'adesione di Regno Unito, Irlanda e Danimarca. L'aspirazione sovietica datava dalla metà degli anni Cinquanta, quando si era ultimata la militarizzazione dei due blocchi con l'adesione della Repubblica Federale di Germania all'Alleanza Atlantica e della Repubblica Democratica Tedesca al Patto di Varsavia. Mosca aveva, in seguito, più volte e in diverse forme reiterata questa aspirazione, fino alla proposta ufficiale di riunire una conferenza paneuropea sulla sicurezza che i Paesi del Patto di Varsavia avevano formulato con l'appello di Budapest nel marzo 1969.
È ben noto che queste incertezze da parte dei Paesi dell'Europa occidentale furono superate ponendo delle condizioni alla riunione dell'assise: il coinvolgimento degli Stati Uniti (e del Canada) nel negoziato, gli alleati d'oltre Atlantico che dopo la fine della seconda guerra mondiale avevano assunto un ruolo determinante nell'ambito della sicurezza europea; e l'ampliamento del negoziato ad altre materie, direttamente o indirettamente legate alla questione della sicurezza, di cui si imponeva una concezione più ampia di quella desiderata da Mosca.
Parallelamente, dunque, secondo i Paesi occidentali si sarebbe dovuto sviluppare, nelle sedi appropriate, un negoziato sulla riduzione delle forze convenzionali in Europa, un aggiornamento degli accordi quadripartiti su Berlino, che garantivano l'esistenza dell'enclave di Berlino occidentale all'interno del territorio della Repubblica Democratica Tedesca, ma anche affrontare, nel corso della conferenza paneuropea proposta dal Patto di Varsavia, una serie di temi destinati a rafforzare la fiducia reciproca e favorire la convivenza, come la cooperazione economica, scientifica, tecnica, ambientale e, soprattutto, umanitaria. Fu quest'ultimo, senza dubbio, il tratto più originale e innovativo del negoziato che doveva condurre all'Atto finale di Helsinki: per la prima volta in Europa, ha scritto Ferraris, appariva «una visione nuova della scena internazionale dove l'uomo, al di sopra e al di là della volontà degli Stati, assumeva una tutela specifica», andando oltre «gli altri strumenti di tutela della persona umana, anche nella sua valenza intellettuale e spirituale (nonché religiosa), inseriti nella Carta delle Nazioni Unite e in successive solenni statuizioni dell'ONU»[3].
Il desiderio sovietico di una generale accettazione dello statu quo con l'impegno al principio dell'inviolabilità delle frontiere fu dunque soddisfatto, ma con il potente correttivo di riaffermare al contempo un principio di diritto internazionale altrettanto antico quale quello del diritto all'autodeterminazione dei popoli. Nell'Atto finale, le frontiere furono riconosciute come inviolabili, ma non immutabili, potendo essere modificate con il metodo pacifico e con l'accordo. L'assetto politico-territoriale non venne così deificato, ma lo si ricondusse correttamente a risultato dei tanti fattori umani e degli equilibri di potenza che sottendono questo tipo di decisioni di politica internazionale. In tal modo, si salvaguardò in primo luogo il diritto del popolo tedesco di autodeterminarsi per raggiungere la sua unità, come richiesto dal preambolo della Costituzione della Repubblica Federale di Germania del 1949. La questione della riunificazione tedesca fu un tema cruciale e sottinteso della conferenza per la sicurezza in Europa come, d'altra parte, determinante era stato, per rendere possibile il suo stesso avvio, il ruolo della Repubblica federale di Germania e della sua Ostpolitik, con la tormentata scelta di accettare il confine Oder-Neisse, rinunciando per il futuro a ogni rivendicazione sugli immensi territori che le erano stati sottratti dopo la guerra a beneficio di Unione Sovietica e Polonia e al costo dell'espulsione da essi di milioni di tedeschi.
Introducendo la possibilità di modificare i confini pacificamente, i Paesi europei occidentali vollero pure mantenere la possibilità che, in una prospettiva futura, si sopprimessero le frontiere all'interno della Comunità europea, quando essi fossero riusciti a istituire un'unità politica statuale, all'epoca ancora tenacemente inseguita e fideisticamente sperata. Nonostante i limiti della loro collaborazione, che gli studi più documentati sul processo negoziale di Helsinki ci mostrano, i Paesi membri dell'Europa comunitaria spesso riuscirono a coordinarsi e a trovare posizioni comuni per agire di concerto, ad esempio imponendo l'introduzione nell'agenda dei lavori del tema della sicurezza mediterranea come corollario di quella europea; o, ancora e soprattutto, battendosi per ottenere l'assenso sovietico al principio del rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e una serie di impegni verso la società civile ai quali conformarsi in omaggio a questo principio. L'Atto finale finì così per disciplinare non solo i rapporti tra tutti gli Stati europei, ma anche i rapporti tra questi e i propri cittadini, e per realizzare un duraturo modello di relazioni «fondato sulla sicurezza cooperativa, in alternativa all'equilibrio di (im)potenze»[4].
Luigi Vittorio Ferraris, che seguì fino al 1975 tutto il negoziato alla Farnesina, presso la Direzione generale degli Affari Politici, prima come Capo dell'Ufficio VI (Europa orientale) dal 1969 al 1972, poi come Capo dell'Ufficio III (Rapporti Est-Ovest e CSCE) e vicecapo della delegazione italiana a Ginevra e Helsinki, si occupò della curatela del volume che raccoglieva vari contributi di diplomatici italiani, testimoni e protagonisti del negoziato. Il proposito era quello, come spiegava lo stesso Ferraris, di organizzare i tanti rivoli del negoziato in modo organico e sistematico, rimanendo, per quanto umanamente possibile, «cronachisti fedeli» di quei fatti che, posti in ordine razionale e logico, creavano già una storia capace di rendere intellegibile il significato politico degli stessi. È un volume, dunque, che ancora oggi resta fondamentale per la conoscenza degli avvenimenti, una fonte storiografica di primaria importanza come lo è questo particolare tipo di fonti a cavallo tra storia documentata (anche se non citata) e memorialistica.
Accanto al proposito di lumeggiare i fatti, il volume aspirava a dimostrare il buon merito della politica estera dell'Italia e la sua lungimirante insistenza per imporre un negoziato a tutto tondo, che includesse non solo materie strettamente relative alla sicurezza, ma proprio quei principi e modalità che ambivano a regolare non solo i rapporti tra gli Stati europei ma anche quelli tra gli Stati e i loro cittadini, aspetto quest'ultimo che costituì il tratto più innovativo e più duraturo dell'Atto finale, nell'intento di immaginare una nuova Europa e aprire originali percorsi per realizzarla. Soprattutto, il volume era un modo per esaltare il contributo della diplomazia come arte, l'arte di quei tecnici d'ogni Paese, che avevano lavorato, lungo tutte le fasi del negoziato, alla ricerca di possibili compromessi, individuando con creatività formule, termini e fraseologia accettabili da tutti i partecipanti, e dando vita a quello spirito di Helsinki che resta la più importante tra le testimonianze raccolte nel volume stesso.
Come lo stesso Ferraris sottolineò nell'avvertenza, lo spirito di Helsinki fu creato da tutti i tecnici che, protagonisti del negoziato, vollero sinceramente contribuire a una migliore comprensione tra gli europei, quella comprensione che - scrisse - guidò «tutti indistintamente i partecipanti ai negoziati CSCE anche nei momenti in cui le loro posizioni e quelle dei loro Governi sembravano agli antipodi in un clima di polemica». Una comprensione che scaturiva dalla convinzione che la pace nel mondo si costruisse a cominciare da un continente europeo che doveva ritrovare la sua unità, e che su questa pace riposassero le speranze di affrontare le sfide globali del futuro. Sono convinzioni che conviene ricordare anche oggi in un'Europa in cui è tornata la guerra e di fronte alle stesse sfide che Roberto Ducci indicava nella sua prefazione al volume mezzo secolo fa: questione delle risorse energetiche, aumento della popolazione mondiale, calo demografico dell'Occidente, salvaguardia dell'ambiente, sviluppo del sud globale, minaccia di conflitti razziali. Sono sfide che sono ancora tutte aperte di fronte a noi, a rammentarci che il tempo storico scorre lentamente, molto più lentamente della vita dei singoli esseri umani.
Questo libro viene ristampato per iniziativa dell'Associazione Amici di Luigi Vittorio Ferraris, che di amici, soprattutto giovani amici, ne aveva davvero tanti. E con il sostegno della Hanns Seidel Stiftung Italia/Vaticano, che vuole così riconoscere l'impegno infaticabile di Luigi Vittorio per l'amicizia italo-tedesca; e con quello dell'Istituto Luigi Sturzo, al quale Luigi Vittorio ha donato le sue carte personali, come testimonianza degli antichi e proficui legami di collaborazione culturale.
È un modo, per tutti, di ricordare Luigi Vittorio, che certamente si rallegrerà di questa iniziativa, che non solo vuole rendere omaggio alla sua figura e all'arte della diplomazia di cui era stato raffinato cultore e acuto indagatore, ma anche a quello spirito di Helsinki che sembra più che mai necessario ritrovare.
Luca Micheletta
[1] Il libro fu pubblicato, in seguito, in versione inglese con prefazione dello storico J. Freymond e col titolo Report on a negotiation: Helsinki – Geneva - Helsinki, 1972-1975, Leiden, Geneva, Sijthoff and Noordhoff, 1979.
[2] R. Gaja, L'Italia nel mondo bipolare. Per una storia della politica estera italiana (1943-1991), Bologna, Il Mulino, 1995, p. 215.
[3] L. V. Ferraris, La questione della Germania fra Ostpolitik tedesca, Westpolitik sovietica e distensione, in Verso l'Europa del 2000. Il processo CSCE da Helsinki a Vienna (a cura di V. Tornetta), Bari Laterza, 1989, p. 69.
[4] G. Lenzi, Trent'anni dopo: l'Osce perchè? in «Rivista di Studi Politici Internazionali», 2006/3, p. 352.
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